Intervista a Gianfranco Gullotto (2004)
- 1.Intervista a Gianfranco Gullotto (2004)
- 2.Marcus Miller alla Casa del Jazz a Roma (2006)
- 3.Litfiba – Vivere il mio tempo: vicissitudini di una linea di basso
Con quasi trent’anni (28) di insegnamento sulle spalle Gianfranco Gullotto è l’insegnante di basso elettrico storico di Roma, jazzista, turnista, attuale docente, coordinatore e vice direttore didattico della Saint Louis College of Music, è stato il maestro di una lunga schiera di professionisti, tra i quali, per citare solo un nome, Saturnino.
Intervistare Gianfranco è stata per me un’esperienza particolare, infatti negli anni Ottanta è stato anche il mio maestro di basso elettrico e con lui ho appreso le basi fondamentali dello strumento e della didattica, ne è scaturita una lunga conversazione ricca di ricordi e di riflessioni tecniche ed artistiche sul nostro strumento, sulla musica, sulla professione musicale e i suoi protagonisti.
D. Quale è stata la molla che ti ha fatto diventare un musicista?
R. Non c’è stata una molla in particolare, sembrava una cosa già scritta, ricordo che feci il tema di italiano dell’esame di terza media in cui cominciai a parlare di un personaggio storico dei Rolling Stones (Brian Jones), che non erano nemmeno il mio gruppo preferito, dicendo che da grande avrei voluto fare il musicista e non mi ricordo per quale motivo poi prendevo ad esempio questo Brian Jones, che poi tra l’altro era pure morto…
Ecco un altro episodio: ero piccolissimo e riuscii a intrufolarmi al Teatro Adriano durante il concerto dei Beatles a Roma (27 giugno 1965), la cosa incredibile era che c’era la buonanima di mio padre che comandava il servizio d’ordine e io stavo lì di straforo senza che lui lo sapesse. In famiglia già c’era una lotta intestina, avevo mio zio e mia madre che erano dei cultori della lirica e io non sopportavo quel modo forzato di usare la voce. A me, da piccolo, piaceva fare casino con i fustini del detersivo utilizzati come batteria, ero attratto da tutto quello che poteva essere rumore, ma i miei si guardarono bene, quando ne espressi il desiderio, dal comprarmi una batteria: mi regalarono una chitarra!
Questa chitarra aveva un problema, si rompeva in continuazione il MI cantino! C’era probabilmente qualche difetto del ponte, non facevo altro che andare a spendere soldi per comprare questo MI cantino, il negozietto vicino a casa mia aveva fatto ormai l’insegna d’oro…, si vede proprio che la chitarra non faceva per me.
D. E il primo basso?
R. Tutti i miei amici con cui strimpellavo mi dicevano: “Però a questo punto devi suonare il basso”, io rispondevo: “Sia mai! Piuttosto suono la chitarra ritmica!”, perchè il bassista era considerato l’ultima ruota del carro (all’epoca, fine anni ’60 si parlava di “chitarra basso”). Ma quando poi cominciai a rompere pure il SI, la seconda corda della chitarra, decisi di suonare il basso sulle quattro corde rimaste di questa chitarraccia elettrica, che era poi una Eko, la famosa X27, attufavo tutto e praticamente ho cominciato così! Ma il primo basso lo comprai nel 1972, cercavo senza successo un fender jazz usato, avevo le mie brave centomila lire, che in quel periodo non erano poche, entrai dal buon Bandiera (storico negozio romano di strumenti musicali) e vidi questo basso, un Precision originale del ’69 usato, ma immacolato, e senza tasti, pensai: “Oddio! Che gli hanno fatto a questo strumento!” non avevo infatti mai visto un basso elettrico senza tasti. Al dunque mi convinsi e l’acquistai.
D. Quali sono state le prime cose che hai suonato?
R. Il bassista di riferimento in quegli anni era Stanley Clarke, ma ho cominciato suonando le cose di Hendrix e dei Black Sabbath, ma in realtà facevo un po’ di tutto.
D. Il tuo primo impatto con Pastorius?
R. E’ stato micidiale, quando ho sentito Pastorius, nel 1976, all’inizio è stata una cosa drammatica, lì ho capito che il mio basso fretless aveva un senso se era suonato in quel modo, per cui sono scomparso dalla circolazione, mi sono chiuso dentro casa a cercare di tirare fuori quella sonorità. Mi tirai giù un sacco di suoi pezzi e questo cambiò completamente il mio modo di suonare, un certo tipo di fraseggio, l’approccio ad ogni nota nella ricerca dell’intonazione, il glissato. Poi cominciai ad esagerare, mettevo gli armonici dappertutto, facevo un casino di note, e di quelle 1000 note 950 erano sicuramente superflue, per non dire sbagliate. A quell’epoca la gente si impressionava dal numero delle note che suonavi e non dalla loro qualità.
D. Mi sembra che ancora oggi sia così! Devo spesso combattere con i miei allievi per spiegargli che non è il numero di note in un millisecondo la cosa più importante, sono ben altri i valori artistici.
R. Perfetto, io lo ripeto da trent’anni! Mi ricordo che si facevano le gare per chi era più veloce, chitarristicamente parlando preferisco sentirmi le due o tre note di Clapton piuttosto che la famosa scala minore di Malmsteen.
D. Poi successivamente tu hai conosciuto Jaco di persona, no?
R. Quando l’ho visto e me lo sono trovato faccia a faccia nei camerini del Tenda a Strisce, per me è stato come incontrare la Madonna, da quell’incontro nacque un articolo pubblicato su Fare Musica.
D. Quali sono stati i tuoi maestri?
R. (ride) Purtroppo nessuno, i miei maestri sono stati i dischi perché di insegnanti non c’è n’erano, sul basso elettrico sono stato autodidatta al 100 per cento, ho studiato il contrabbasso come complemento con Simoncini, un maestro di S.Cecilia, quando già lavoravo professionalmente. Però posso dirti che ho avuto dei maestri non di basso, ma di approccio alla musica come Tommaso Vittorini, il figlio di Elio Vittorini, sassofonista e arrangiatore coi fiocchi, che mi buttò fuori dal suo gruppo perchè non sapevo leggere la musica, mi fece capire l’importanza della lettura; un altro maestro importante è stato Massimo Rocci, grandissimo fonico, se pensiamo ai mezzi che c’erano allora, e batterista del trio di Enrico Pierannunzi, con lui ho lavorato come turnista… (lascio direttamente alla voce di Gianfranco il racconto di quelle lezioni ricevute da Massimo Rocci).
D. Come hai iniziato a insegnare?
R. E’ stato sempre Massimo Rocci, lo stesso disgraziato che mi portò a fare il primo turno, gli chiesero se conosceva qualcuno che insegnava il basso e lui mi presentò, all’inizio vai lì e cominci a insegnare quello che ti sei tirato giù, fino a quando non sono cominciati a uscire un po’ di libri, tieni conto che, vabbé questo lo sai, il primo libro qui in Italia sulla didattica del basso elettrico con un certo numero di pagine l’ha fatto il sottoscritto, prima di quello esistevano i famosi librettini tipo “Impara a suonare il basso in 24 ore”…
Mi ricordo che spesi un botto di soldi in libri, anche ordinandoli dagli Stati Uniti, mi fidavo del titolo -ho preso certe di quelle sole-, poi quando sono stato in America a suonare, lì ho fatto incetta…
D. Questo mi richiama una domanda che ti volevo fare a proposito dei libri: c’è stato qualche libro di didattica musicale particolarmente importante per te?
R. Tutti e nessuno, tanti libri che ho sottovalutato dopo qualche anno mi sono accorto che erano fondamentali, quelli sui quali mi ero intestardito potevano essere presi più alla leggera… alcuni libri non erano neanche per basso elettrico, ad esempio il Dante Agostini per il rullante, credo di essere stato il primo a utilizzarlo per il solfeggio ritmico sullo strumento; un’altro libro dal quale ho estrapolato alcune cose è stato Pattern For Jazz, anche se ho sempre cercato di non prendere quegli esercizi solo come un movimento geometrico da trasportare, ma ho focalizzato la prima posizione, i primi 4 tasti più le corde a vuoto, sapere che caspita di note stavo facendo, questo credo sia fondamentale.
D. Attuale stato dell’insegnamento in Italia?
R. Troppa gente si è buttata nell’insegnamento quando si è accorta che purtroppo non si suonava tanto, io capisco che è difficile sopravvivere con la musica però facciamo in modo, almeno, che il momento più bello non sia quando l’allievo ti mette i soldi in mano… io spero che nessuno si senta offeso da quello che dico. Insegnare è una grossa responsabilità, ti trovi di fronte dei ragazzi che credono in te…e comunque sei costretto a imparare due volte: prima a suonare e poi ad insegnare.
D. Che tipo di approccio umano e didattico hai con gli allievi?
R. Che democraticamente decido io (ride), lo so che sembra brutto, tu mi conosci e comunque nel tempo la cosa non è migliorata! Più lavoro e più guadagno, ma a volte preferisco guadagnare di meno…non lascio fare l’allievo più di tanto, deve capire che ho l’esperienza per guidarlo nel migliore dei modi.
In un primo momento ho come gli occhi di una mosca e cerco di capire profondamente chi mi trovo davanti, di fargli i raggi x, ogni persona è diversa dalle altre, devi entrare nella sua mentalità, capire quali sono le sue eventuali difficoltà, affrontare con pazienza i problemi. Naturalmente il rapporto umano è fondamentale: se non c’è non è possibile trasmettere. Alla base di tutto c’è la metodologia: lettura, impostazione delle mani, tecnica, tante componenti che messe insieme fanno un musicista.
Io cerco di non influenzare in maniera univoca nessuno dal punto di vista dei gusti musicali, magari a chi sente solo rock propongo di studiare il jazz e viceversa, la musica è a 360° ed è importante spaziare, soprattutto se vuoi vivere di questa cosa.
D. Il tuo rapporto con il metronomo.
R. Alcuni lo ritengono indispensabile, Patitucci fa le clinics e si porta il metronomo, un bassista come Reggie Hamilton, che è venuto a trovarci qua da noi, parlava della sua importanza assoluta, poi Berlin che se n’esce che il metronomo non deve esistere…, la verità sta nel mezzo? Per quanto riguarda lo studio secondo me è imprescindibile dal metronomo, il problema è che non bisogna diventarne schiavi, io personalmente continuo a dire che il tempo lo sento nello stomaco, se c’è un click bene ma se non c’è devi trovare il giusto interplay con gli altri musicisti che suonano con te.
D. Puoi darci qualche consiglio sull’organizzazione del tempo settimanale nello studio di uno strumento?.
R. Prima di tutto non è il quanto studi ma il come studi, poi è importante essere comunque costanti: meglio distribuire un’ora al giorno durante la settimana, piuttosto che non far nulla per sette giorni e fare sette ore in un giorno solo, certo è evidente che più studi e più risultati riesci a ottenere, ma il problema è che devi studiare con la giusta predisposizione, se ti senti come se avessi il mitra puntato dietro alla schiena… esci, vai a prendere un po’ aria che è meglio.
D. Contrabbasso e basso elettrico: abbiamo famosi esempi di bassisti che li suonano entrambi, che tipo di approccio consiglieresti a chi volesse studiarli contemporaneamente?
R. Il problema e che nel momento in cui cominci lo studio di uno strumento ti devi dedicare a quello, quando già sono solide le basi su quello si può cominciare anche a studiare l’altro, è megli dunque non partire contemporaneamente con tutti e due gli strumenti, anche perché le tecniche sono profondamente diverse, la differenza nel diapason (lunghezza della corda) produce diverse diteggiature, non parliamo poi della mano destra che utilizza la tecnica dell’arco, lo studio sul contrabbasso va affrontato comunque sia in maniera classica, perché l’arco è quello che ti da in maniera giusta la misura dell’intonazione e ti forma l’orecchio nel modo migliore.
D. Pensi che il basso elettrico possa svolgere un ruolo nella musica classica?
R. Si, se quelli che fanno musica classica lo vogliono inserire.., lo vogliono inserire secondo te? Non credo proprio, eppure prendi per esempio un basso fretless con quel tipo di sonorità sarebbe una cosa stupenda. Se mi chiamasse un compositore per fare dei temi o qualsiasi altra cosa di musica classica ci andrei pure gratis.
D. A proposito di fretless, mi avevi parlato di alcuni vantaggi della tastiera in resina fenolica…
R. Se tu prendi un fretless con la tastiera in legno, anche delle marche più importanti, trovi sempre dei punti sulla corda di SOL, a partire dal SI fino ad arrivare al RE-RE#, che suonano con minore intensità, ho chiesto a tanti liutai e nessuno a saputo dirmi perché! La resina fenolica questa cosa qui non la fa.
D. Wooten, Manring, Sheen, Berlin, Dickens, ecc., negli ultimi anni è cresciuto l’utilizzo virtuosistico e spesso quasi chitarristico del basso elettrico, che ne pensi?
R. Si in effetti c’è questa tendenza, il problema è che quelle cose lì quando le usi? Ogni tanto potrebbe capitare magari nell’ambito del solo, ma fino ad un certo punto, se no suonando da soli: non è la cosa migliore secondo me per un bassista elettrico. Vedi si raccontano solo rosa e fiori, un bassista americano che ho il piacere di avere come amico, mi ha detto, tanto per fare un esempio, di Victor Wooten che ha grosse difficoltà a lavorare negli Stati Uniti, perché pretende di fare, nel suonare insieme agli altri, quello che fa quando sta da solo, e non lo chiamano più. Queste cose non si conoscono, tanti ragazzi impazziscono per lui, anche a me piace, ma quando lo sento, dopo le prime 10 note, mi rompo un po’…, è una questione di gusti. Pastorius aveva il 10 per cento della tecnica di Jeff Berlin, ma possedeva il 10.000 per cento in più di cuore, era sicuramente più sporco, ma io lo preferisco, con tutto il rispetto di Berlin che suona da Dio. Ai numeri da circo con lo slap ecc., preferisco sentire un groove della Madonna di Marcus Miller, che comunque qundo vuole fare i numeri da circo li fa li stesso, ripeto è una questione di gusti personali. E’ giusto imparare le varie tecniche e ascoltare i bassisti più rappresentativi, per carità, Stu Hamm fa benissimo il tapping, Michael Manring lo fa in un altro modo, poi c’è il caso particolare di Brian Bromberg: lui fa tutto e gli altri fanno finta che non esista, ha sempre fatto il verso a tutti, forse l’hanno preso come uno sfottò e hanno cercato di escluderlo, della serie “non esiste!”, ho avuto l’occasione di conoscerlo e di ascoltarlo e mi fece capire che era veramente in grado di fare tutto dappertutto: dal contrabbasso ai bassi con le corde in nylon, delle cose allucinanti, soli bebop sul contrabbasso con una tecnica micidiale, lo posso paragonare solo a Niels Pedersen, pulizia, intonazione, veramente strepitoso, se tu parli con un sacco di gente non sanno neanche chi sia, però tutti conoscono Victor Wooten, e Bromberg faceva 15 anni fa le cose che fa Wooten oggi!
Uno scambio di opinioni sullo slap tra me e Gianfranco.
D. Ti piace lo stick?
R. Lo stick è uno strumento bellissimo, pensa il primo articolo che uscì in Italia che parlava dello stick lo feci io su Fare Musica, intervistai Jim Lampi un vero fenomeno, era stato anche un sassofonista, mi fece innamorare di questo strumento, fu, tra l’altro, il primo dimostratore di Chapman; qui in Italia c’è una ragazza che lo suona: Virginia Splendore.
Devo però dire che tanti di quelli che vedo in giro con lo stick, e che l’hanno reso più famoso su un palco, in realtà non lo sanno suonare.
D. Cosa pensi dello stato attuale della musica?
R. Prendiamo la musica rock di oggi: quante grandi novità ci sono? Io preferisco sentirmi gruppi d’epoca come i Gentle Giant, piuttosto che sentirmi gente che ha meno idee di loro che sfrutta solamente la tecnologia con i suoni migliori di allora. Vedere i grandi gruppi dal vivo era veramente uno spettacolo, io ho visto artisti come Gentle Giant, Deep purple, Frank Zappa, Weather Report, Ron Carter, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Ho visto e sentito tutto quello che potevo, riesco a trovare delle cose buone in tutti i generi musicali e anche, però, si può dire? Della merda in tutti i tipi di musica!
D. Professione musicista in Italia?
D. Difficilissimo, come strumentisti elettrici non siamo in pratica nemmeno riconosciuti dallo stato. Bisogna avere le idee chiare, sapere cosa uno vuole fare, spesso il carattere conta più della tecnica. Quando sento un ragazzo che mi dice che vuole mollare tutto per fare questa professione io dico sempre di cercarsi un’alternativa, l’ho fatto con tutti, anche con quelli che oggi sono i più grossi nomi del basso elettrico italiano ho detto la stessa cosa.