Seminario Dennis Chambers / Jeff Berlin (Roma, 11 dicembre 2009) articolo di Francesco Napoleoni
Preludio
Roma. Un freddo venerdì sera di fine autunno. Un piccolo ed austero auditorium a ridosso del Gianicolo. Alla spicciolata arrivano molti giovani musicisti che, ammassandosi intorno ad una anonima porticina, chiacchierano disordinatamente, chi parlando dei propri impegni musicali, chi dei personaggi che di lì a poco si materializzeranno in tutto il loro splendore, chi salutando amici che non si aspettava di trovare lì…
Questa l’immagine che mi si presentava al momento del mio arrivo, circa un quarto d’ora prima dell’apertura. Finalmente ci fanno entrare, passiamo attraverso una piccola anticamera, ed ecco, oltre un’altra porticina, aprirsi di fronte a me un’ampia sala rettangolare con un palco in fondo, probabilmente pensato più per concerti di musica da camera, piccoli spettacoli teatrali, recite scolastiche, che non per contenere il poderoso set di batteria di Dennis Chambers, che rubava lo spazio ai due combo MarkBass di Jeff Berlin, i quali a loro volta relegavano in un angolo una testata e cassa per chitarra (mi sembrava una Cicognani), peraltro mai usata nel corso della serata.
L’intervento di Jeff Berlin
Dopo poco meno di mezz’ora gli organizzatori ci presentano finalmente i due protagonisti, facendo entrare per primo Jeff Berlin. Questi, non appena entrato in scena, chiede immediatamente di riaccendere le luci in sala per poterci vedere in volto. «Questa è una clinic, non un concerto. Stiamo parlando di musica, e questo ci mette tutti sullo stesso piano.», esordisce, con voce limpida e profonda.
Non avendolo mai visto prima dal vivo, sono rimasto colpito dalla sua stazza: grande e grosso com’era, il suo basso sembrava un giocattolino addosso a lui. Superata questa prima superficiale impressione, ho avuto modo di constatare di persona delle sue grandi doti di didatta e comunicatore, di cui avevo solo un’idea dalla lettura di suoi vecchi articoli su Bass Player.
Il suo intervento non è durato molto ed ha preso da subito una piega filosofica: ci dice di non aver preparato nulla per l’occasione, ed inizia a parlarci di alcuni concetti generali che notoriamente gli sono cari. Uno di questi è il concetto di “tempo”, inteso sotto vari aspetti: un fiero avversario del metronomo, ci ha raccomandato di non esercitarci mai seguendone il ticchettio freddo e regolare, poiché ciò andrebbe a scapito dell’interpretazione del brano che stiamo studiando; in altre parole se siamo costretti a prestare attenzione alla regolarità temporale del flusso di note, non possiamo contemporaneamente concentrarci sul significato di quelle note. In questo senso il metronomo ci costringe ad una performance che potrà anche far felici i cattivi insegnanti, ma non contribuirà in alcun modo alla nostra crescita musicale, né migliorerà il nostro senso del tempo.
Per dimostrarci quanto detto, ha eseguito al basso la prima parte di alcune frasi musicali ben note — tra cui “Ammazza la vecchia…” —, pregandoci di terminarle battendo le mani, quindi facendoci notare come il fatto di aver risposto correttamente sia legato all’ascolto del contesto musicale (l’inizio della frase), non da un’indicazione metronomica.
Poi chiede se in sala ci sia qualcuno completamente a digiuno di musica e che non abbia quindi mai suonato. Trovata la persona, Jeff gli presta il suo basso e gli chiede di suonare ripetutamente una nota qualsiasi, mentre lui va a sedersi dietro alla batteria ed inizia a suonare un ritmo binario seguendo quella nota di basso ripetuta sui quarti. L’intento è quello di mostrare che la musica rock è nata così, in maniera per così dire “ignorante”, naturale, a partire da un senso del tempo innato, e — aggiungo io — la conoscenza informale di poche nozioni musicali. Una ricetta semplice ed efficace.
A proposito del linguaggio musicale — altro tema caro a Jeff —, ha insistito molto sul fatto che la sua acquisizione (ed il suo continuo arricchimento) è di fatto il vero compito del musicista, partendo dal principio che non si può suonare ciò che non si è mai ascoltato, così come non si può parlare una lingua che non si conosce. L’imitazione nelle prime fasi, lo sviluppo della tecnica, l’ascolto, l’analisi e la trascrizione di nuova musica forniscono le “parole” per creare un proprio linguaggio musicale. Non solo: è importante commettere errori, sperimentare nuovi fraseggi, nuove soluzioni melodiche ed armoniche se si vuole creare nuova musica. Un’idea nuova che possa sembrare “strana” all’inizio, una volta divenuta familiare al proprio orecchio ed alle proprie mani, diviene nuova musica.
Ad ulteriore dimostrazione delle sue teorie ha fatto un altro esperimento: invita a salire sul palco un volontario con il proprio basso, gli indica una sequenza di note piuttosto “spigolosa” (fatta intervalli di nona bemolle discendenti cromaticamente), chiedendogli di riprodurla più volte lentamente e senza preoccuparsi di sbagliare le singole note. Sotto la sua guida, nel giro di pochissime ripetizioni il ragazzo è stato in grado di suonare quella strana, dissonante frase. Questo per farci capire che una buona fase di apprendimento richiede di concentrarsi esclusivamente alla acquisizione nella mano ed in testa del nostro oggetto di studio, senza aver fretta, prescindendo da quella che sarà la sua resa musicale finale, e senza preoccuparsi di dover andare “a tempo”: in definitiva lo studio non è una performance, torna a ripeterci.
Successivamente ci ha chiesto di suggerigli una manciata di note a caso, che ha imparato sul basso nel giro di poco più di un minuto. La frase che ne è venuta fuori poteva ben appoggiarsi su un accordo di RE7, ed aveva un che di bachiano, cosa che evidentemente deve aver pensato anche lui, a giudicare dall’improvvisazione in SOL minore che ne è seguita, ricca di imitazioni, risposte, passaggi con accordi diminuiti ed altro.
Il tutto è durato meno di un’ora, lasciando il pubblico perplesso ed ammutolito, specie quando, verso la fine, ci ha chiesto se c’erano domande. Ci ha ringraziati e ci ha salutati a mani giunte, accennando un inchino alla maniera buddhista.
Dennis Chambers
Neppure il tempo di riprenderci dallo choc che vediamo entrare di soppiatto sul palco e sgattaiolare dietro alla batteria una sagoma nera, seminascosta da un cappello e con due grosse “bacchette”, di non meglio precisata origine. Accenna un paio di rullate con quegli improbabili arnesi, poi ci dice: «Ok, stavo solo scherzando…». Dopo questa gag, prende le bacchette adeguate e parte con una buona mezz’ora di infuocato solo. La “terapia d’urto” è iniziata: con un’agilità ed una naturalezza davvero impressionanti Dennis Chambers ha sciorinato una serie di pirotecniche esplosioni di suono, serratissime rullate single-stroke alla Billy Cobham, variazioni improvvise di dinamica, poliritmi impossibili in cui ogni arto andava per proprio conto, il tutto condito dall’abbondante uso del doppio pedale alla sua maniera (in terzine, suonando due colpi con il sinistro, uno con il destro).
La sala rimbombava forte, i colpi sui tamburi potevano essere di una potenza spaventosa, e intanto lui sorrideva sornione, senza mai smettere di masticare la sua gomma, come se scatenare quel pandemonio sonoro fosse la cosa più naturale del mondo.
Durante il solo è accaduto un episodio divertente: Dennis indugiava un po’ sul rullante, tenendo per svariati secondi una rullata sul pianissimo, per poi d’improvviso esplodere una manciata di colpi fragorosi — e molto precisi — e ritornare immediatamente al pianissimo. Un ragazzo seduto davanti a me evidentemente non si aspettava una cosa del genere, e al primo colpo forte (ed era davvero forte) ha compiuto un vistoso balzo dalla sedia per lo spavento, e fece per reggersi alle persone che gli erano accanto, rimanendo con il cuore in gola per qualche istante.
Al termine della sua lunga esibizione Dennis si alza dallo sgabello, arriva al microfono e chiede — con una punta di spavalda ironia — se ci siano domande. A chi non lo abbia mai conosciuto o sentito prima, potrebbe apparire come un vecchio ragazzaccio di strada, poco incline alle cerimonie e alla divulgazione, e molto sicuro di ciò che in vita sua ha appreso. Pian piano dal pubblico iniziano a saltare fuori le curiosità, e si è finiti ben presto sul tecnico.
A differenza di Berlin, Dennis Chambers non ama dilungarsi molto in chiacchiere: ha un tono di voce basso ed una parlata talvolta poco intelligibile, e non è aiutato né dal suo chewing gum né dal microfono, che non ha quasi mai davanti a sé. Ciò tradisce sicuramente la personalità di questo straordinario musicista, il cui vero linguaggio, quello in cui sa esprimersi meglio, è quello della musica stessa, e lui l’aveva appreso fin dalla più tenera età.
Incalzato dalle domande, ci racconta di aver iniziato a suonare a quattro anni, che non sa leggere la musica, che ciò che ha imparato lo ha fatto osservando ed imitando ripetutamente i suoi grandi idoli, i batteristi jazz della generazione precedente. Cita spesso Billy Cobham, Buddy Rich, Elvin Jones, e molti altri, spiegandoci come abbiano influenzato il suo stile. Ci dice (e non è la prima volta che lo dichiara pubblicamente) quanto soffra l’ossessione dell’industria discografica per lo stile di Steve Gadd, negli ultimi anni, ed in effetti non gli si può dare torto: ci vuole del coraggio per chiedere ad un personaggio come Dennis Chambers — che ha un suo stile — di suonare imitando un altro, sia pur grandissimo batterista come Gadd, ma, si sa, il mercato ha le sue “ragioni”, che la ragione non conosce…
Gli chiedono come fa ad ottenere una potenza di suono notevole con delle bacchette fini come le sue, quale sia il suo modo di rapportarsi con i tempi composti irregolari, quale sia il suo approccio allo swing… In tutti i casi le risposte sono state pressoché disarmanti, come solo un sanguigno talento come il suo può produrre: si passa dal «Ma a me viene naturale così» fino ad arrivare a «Ho ascoltato e riascoltato [per esempio] Buddy Rich, ed ho provato a rifarlo uguale». E giù con abbondanti esempi sullo strumento, su ognuno dei quali si sarebbe potuto discutere per ore, solo per capire cosa diavolo avesse fatto.
Dopo più di un’ora e mezzo così, il buon Dennis ha chiamato sul palco Jeff Berlin per unirsi a lui in una jam di circa un quarto d’ora, caratterizzata casualmente da un ritmo serratissimo e da un abbondante sfoggio di virtuosismi da parte di entrambi, che ha tramortito definitivamente il pubblico presente, avvolgendolo in un incalzante turbinio di note.
Così si è conclusa questa esperienza “mistica”, lasciandoci con pareri confusi e contraddittori (ed una gran fame).
Un commento
Complessivamente, la sensazione che ho ricavato da questo incontro è un misto di ammirazione (per i due protagonisti) e di delusione (per la situazione).
Ammirazione perché potendo trascorrere del tempo di fronte a due strumentisti che hanno dedicato tutta la loro vita alla musica, ho avuto modo di capire qualcosa di più della loro mentalità, del loro approccio alla musica e, non ultimo, della loro umanità.
Meno ovvia è la spiegazione della mia delusione. Durante lo svolgimento di questa clinic mi sono chiesto più volte cosa ci avrebbe lasciato il contatto fugace con quei due ineffabili signori, ed alla fine sono giunto alla conclusione che ne avremmo ricavato ben poco.
Nel caso di Jeff Berlin si è affrontato un discorso più filosofico che musicale, che è già ben noto a chi lo conosce da anni, ma che risulta poco o punto accettabile dalla maggioranza, almeno ad un primo ascolto. Le sue idee sono controcorrente per molti aspetti e necessiterebbero di una serie di incontri per essere recepite appieno, evitando di esser frettolosamente archiviate come “stravaganze di un genio”.
Inoltre, dal momento che egli stesso ha preferito sorvolare sugli aspetti più tecnici del suo modo di suonare, nulla in più sappiamo per esempio di come faccia a sostenere un intero concerto da solo, di come sia in grado di suonare contemporaneamente melodie ed accompagnamenti senza dover ricorrere al tapping, di quale sia il suo approccio all’improvvisazione jazz, etc. etc. …
Alla luce di ciò resta difficile condividere la sua affermazione secondo cui quando si parla di musica, siamo tutti sullo stesso piano. È sul suo stesso piano solo chi ha già una certa esperienza musicale ed una certa sensibilità filosofica, ed è quindi in grado capire quale sia il ragionamento dietro le parole di JB. Gli altri non capiranno, forse mai.
Il più taciturno Dennis Chambers ha compiuto l’ardua impresa di sintetizzare il suo grande repertorio di virtuosismi in poco più di un’ora di quello che è stato più uno spettacolo che un seminario tecnico, forse non senza un certo autocompiacimento. Bravura molta, spavalderia q. b., didattica — mi duole dirlo — pressoché inesistente.
In conclusione, avrei auspicato un seminario più mirato su un particolare argomento, oppure un ciclo di seminari con maggiori approfondimenti: solo così si sarebbe potuto assottigliare — sia pur di poco — il divario tra due grandi ed il musicista medio, specie se giovane.